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LA MORTE DEI CENTRI COMMERCIALI

di S.C.

Gli Stati Uniti d’America potranno piacerci o no ma da sempre gli riconosciamo una cosa cioè che quando si mettono in testa una cosa la fanno. Ad esempio quando capiscono che un’idea è buona gli americani non te la rubano o copiano come farebbero i cinesi, no loro te la comprano, ti fanno diventare “partner” e in men che non si dica la tua idea utilitaria la ingrandiscono, la implementano, la smontano e la ricostruiscono, e quella idea la fanno diventare un SUV.
Così ad esempio è successo con centri commerciali: gli imprenditori americani sono venuti in Europa hanno visto la Galleria Vittorio Emanuele II a Milano, le Burlington Arcade a Londra, gli sono piaciute, gli sono piaciuti gli affari che ne scaturivano e se ne sono tornati negli states ad inventarsi gli “shopping malls”quelli che noi oggi chiamiamo centri commerciali, delle americanate pazzesche: mega cinema, mega ristoranti fast-food, mega ipermercati, mega parcheggi.
A metà degli anni ’90 negli U.S.A. venivano costruiti circa 140 centri all’anno, ma con l’inizio del nuovo millennio questi numeri cominciarono a diminuire e nel 2007, l’anno prima dell’inizio della recessione nordamericana, nessun nuovo shopping- mall è stato costruito per la prima volta in 50 anni. Oggi la statistica dei centri fantasma, dei “dead mall”, è significativa e studi del settore immobiliare prevedono che in America il 10% dei centri commerciali fallirà o verrà riconvertito in spazi non commerciali nei prossimi 10 anni.

La cause sembrano risiedere ovviamente nella crisi globale, nell’aumento degli acquisti on-line (che ad oggi si attesta al 6% delle transazioni globali) ma soprattutto nel fatto che molti piccoli “chain-stores”, le piccole catene commerciali, hanno chiuso i battenti di fronte al nascere di colossi. 
Il risultato è che principali brand sono ormai in mano ad un unico padrone e questo determina anche la chiusura dei punti vendita di tali colossi che si fanno concorrenza fra “fratelli”,  e quando chiude uno di questi ci sono migliaia di metri quadri vuoti che non invogliano più la gente a frequentare centri in cui gran parte delle vetrine sono “for sale” e da qui si finisce in una spirale letale per tutti i punti vendita presenti. 
Esiste un sito (www.deadmalls.com) che racconta la chiusura di questi centri che ha dei risvolti drammatici per le comunità che vedono sparire in alcuni casi l’unico punto di agglomerazione sociale come nel caso del Cloverleaf Mall a Chestrefield in Virginia, punto di riferimento della popolazione dal 1950.

Oggi questi spazi enormi sono abbandonati, come documentano le foto su deadmalls.com, in scenari post apocalittici come nel film di Romero del 1977 “L’alba dei morti viventi”, che si svolge in centro commerciale in cui ormai la vita sembra essere svanita. Forse questa situazione è stata provocata anche dal fatto che la crisi ha instillato nel cervello dei cittadini un senso di ribellione al consumismo sfrenato e dal momento che non riescono più a potersi premettere di spendere e spandere come qualche anno fa, hanno cominciato a detestare questi luoghi, un po’ come  la storia della volpe e l’uva, e come spesso capita agli ex fumatori hanno cominciato addirittura ad odiare il loro ex vizio.


Siamo di fronte ad un consapevolezza acquisita forzatamente  e non veramente sentita? Chi può dirlo resta il fatto che mentre il mondo occidentale si interroga su come far convivere decrescita e sviluppo, in Cina a Dongguan è stato inaugurato un centro commerciale con una superficie di 892 mila metri quadri, 20 mila volte l’area ricoperta da piazza San Pietro a Roma.

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